contattaci: info@nazionenapulitana.org

 

 

Divenuto maggiorenne ed uscito di tutela, si credette un uomo importante, specie perchè disponeva di qualche spicciolo; comincio cosi a promettere e a minacciare ora questo ora quello. Frequento cattive compagnie che finirono per pervertirlo e farlo divenire testardo. Ne valsero i materni consigli per allontanarlo dai cattivi compagni.
Ben presto comincio a fare il vagheggino e non si contento d'amoreggiare con una, la « Lombardia », sua vecchia passione. Fece smorfie e moine con quante vicine avesse, mostrandosi verso tutte pazzamente innamorato.
Le amiche, benchè fossero ben sorvegliate in casa paterna, trovarono il mezzo per andargli incontro di soppiatto, per scambiare qualche saluto col « signorino ».
Ne mancarono galeotti e vecchie ruffiane che si adoperavano per lo scambio della amorosa corrispondenza.
Le letterine, per lo più, erano così concepite: « Signorina carissima, io sono innamorato di voi; sono un bel giova-notto e faro la vostra felicita; spezzate le catene della severa custodia che vi affligge. Non vi vergognate a questa età farvi vedere ancora soggetta alla austerità del babbo ed alla vigilanza della mamma?
Emancipatevi da quei vecchi barbogi; stringiamo un caro connubio ».
Per farsi vedere galante spesso il giovanotto « Piemonte » faceva regali alle sue putibonde belle, per cui le parole ingannatrici e i doni travolsero il loro cervello e, spregiando ogni consiglio di savio e ogni minaccia dome- stica, si dettero liberamente ad amoreggiare.
II « Piemonte » le impalmo tutte l'una dopo l'altra, unificò le ricche doti, che tra mezzani e amiconi libertini scialacquò allegramente, donando perfino le sue sorelle, Nizza e Savoia, ad un suo manutengolo, figlio della vicina Francia.
Divennero, cosi, sue spose le giovinette «Modena e Parma », sue vicine, poi la « Toscana », e, poi, le signorine «Umbria e Marche», e,finalmente, la bella ricchissima « Sicilia ».
Appena impalmate, quelle infelicissime donzelle, s'accorsero d'essere state ingannate e non trascorsero nemmeno « gli. otto giorni della zita » che si videro confabulare tra loro.
La prima a parlare fu la « Sicilia », la quale, rivolta alle sue compagne di sventura, disse: « E cosi, sorelle, che matrimonio abbiamo fatto noi? — Io, spinta dalla curiosità, ho visitata la casa, ho aperto gli scrigni e non ho trovato che miseria; questo spiantato zerbino ci ha ingannate.
— Anche io — rispose la « Toscana » — mi sono accorta dell'inganno: io ero cosi gentile in casa mia, ed ora parmi trovare in una fogna.
Poverette noi — soggiunsero l'Umbria e le Marche — noi eravamo educate al timore di Dio, e qui non si usa neppure il segno della croce.
Modena e Parma conclusero: — Ah! Ruffianacci, vorremmo torcervi i peli del viso, per averci condotte a queste nozze; e questo il talamo che ci prometteste?
Ma non sapete, sorelle, — replicò la Sicilia — che soltanto a distanza di pochissimi giorni dal matrimonio, la mia ricca
dote, i miei ori e le mie gemme, accumulati in 126 anni di saggia amministrazione finanziaria da mio padre della illustre famiglia dei Borboni, sono andati dispersi? Con me, pero, non si scherza e vi assicuro che caverò gli occhi a questo sciagurato consorte, ingannatore di oneste fanciulle.
Al rientro in casa del marito, che, frattanto, era andato a spendere le ultime briciole dell'estorte doti in bagordi a Lissa e a Custoza, dove, però, ci rimise l’osso del collo, la Sicilia lo investì, dicendogli: « Tu ci hai ingannate, assassino dei miei fratelli; dov'e la ricchezza che ci promettesti? Dov'e la liberta se ci sequestri i nostri diari giornalieri? Facevi il galante con i soldi presi a prestito e speravi di saldare i debiti con le nostre doti, o infelice spiantato. Hai dissipato i nostri patrimoni ed ora ci vorresti fare baldracche, non gia donne, con le tue continue richieste di danaro. Questa non e una casa, ma un ricettacolo di sozzure.
La povera « Sicilia » non finì neppure il suo dire, perchè molte e molte altre cose avrebbe avuto da rinfacciare, quando l'indignato « signore » le si scaraventò addosso e non le risparmiò tortura alcuna: bastonate, cappio, arsione.
Infine la pose a pane ed acqua.
I prossimi parenti della « Sicilia », saputo lo stato miserando in cui era ridotta, magra, stecchita, affamata, senza più risorse, con il corpo coperto di lividi, mossero querela per sciogliere quell'infame vincolo per vizio di consenso, perchè il contratto matrimoniale era frutto di frode e inganno.
La lite pende ancora e non sappiamo se e quando sarà resa giustizia a quell'infelice.


Ed eccoci alla seconda favoletta:
In una amenissima prateria, ove perenne regnava la primavera, pascolava una bellissima mandria di pecore, alla cui guardia stava un fedelissimo cane « barbone ».
Riempitosi il capace ventre per l'abbondanza delle erbe, talune pecorelle tentarono di allontanarsi, sperando di trova-re altrove, per brucarle, erbe nuove e piu saporite. II cane, con i suoi latrati, le costrinse a tornare indietro e per que-sto alcune di esse, dopo aver preso consiglio con un dan-nato e perfido caprone, cominciarono a brontolare: « Quale vita e la nostra; ci si toglie la liberta di andare a libero pascolo e dobbiamo starcene qul schiave sotto la severissima custodia di quel cane « barbone », anche se abbaia sol-tanto, ma, in fondo, non e capace di ammazzare. Un vero tiranno. Questo giogo non e più sopportabile; e una tutela dalla quale dobbiamo liberarci; emancipiamoci, sorelle, e studiamo di nascosto come riuscirvi ».
II malvagio caprone promise il suo appoggio per liberarle dalla pretesa schiavitù e donar loro la sognata liberta.
II cane « barbone » che possedeva un fine odorato, si accorse di qualche cosa, e per la soverchia vigilanza a cui fu costretto di giorno e di notte, per la continua preoccupazione, per il dolore che gli procurava l'ingratitudine, dimagrì a vista d'occhio, perdendo il sonno e l'appetito. L’atro più dell'usato, generando malcontento a causa della sua accresciuta vigilanza.
Tutto questo pero aveva origine da un disegno stolto e ambizioso di poche pecorelle che, ignare della felicita che godevano, e sperando in una sorte migliore, eransi associate a congiurare.
Per isventura, come e risaputo, i tristi hanno una pertinace fermezza di propositi e quelle stolte pecore, con l'aiuto del rivoluzionario e furbo caprone, profittando dell'oscurità di una terribile notte, mentre il cane dormiva, vinto dalla stanchezza, scavalcarono la siepe ed evasero dalla prateria.
Sul far dell'alba si guardarono intorno e con grande meraviglia scorsero una landa inospitale e deserta, dove mancavano le acque e le erbe e la fame fu il primo frutto dell'acquistata liberta. Camminando spesso s'imbatterono in brutti serpenti, che, strisciando, si avventarono su di loro, succhiando tutto il latte delle loro pingui mammelle, cosi gonfie in grazia all'ultimo pascolo precedentemente goduto. Altre volte s'imbatterono in qualche tracotante contadino, che, afferrandole con forza, le toso per impossessarsi della loro lana, scacciandole, poi, a colpi di bastone.
Sconfortate dalla tristissima condizione, decisero di tornare indietro. Un terribile e squallido spettacolo si presento ai loro occhi: la bella prateria di un tempo era stata invasa da pecore fameliche chiamate dal caprone traditore; le erbette che, per lunga distesa riempivano un tempo il campo, erano state divorate, e la prateria, dianzi lieta e verdeggiante, divenuta povera e selvaggia, mentre le povere pecorelle rimaste sul luogo, non avendo voluto seguire le compagne ribelli, prima contente e grasse, apparvero meste e tristanzuole, rimpiangendo il cane « barbone », costretto a partire esule per lontani paesi.
Benché fanciullo, mi venne di chiedere al vecchio: — Perchè uscirono dalla prateria quelle pazze?
Ed egli a me, « come persona accorta »: — Figliuolo, ricordati, l'uomo si annoia talvolta anche della soverchia felicita e l'illusione spesso svanisce solo quando ci accor-giamo d'essere fra le zanne dei lupi. Fanne tesoro del mio insegnamento e, una volta adulto, scrivilo nei tuoi libri, rendilo di pubblica ragione e dl al lettore che la storia non e quella contenuta nei testi scolastici, ma quella che si apprende, con sudate ricerche negli archivi, su documenti ingialliti e con la scrittura sbiadita.

Domenico Capecelatro Gaudioso, Reazione a Napoli dopo l'Unità, Edizioni del Delfino, 1973, pp. 18-22.